ANTONIO BASSO
TRA LA LEGGE E LA POESIA
24 luglio 1647
Ad Antonio Basso ducati 4 e per lui a Carlo d’Alfano a compimento di ducati 18, ammontare di un’annata di affitto di una casa sita all’Annunziata.
27 luglio 1647
Ad Antonio Basso ducati 300 e per lui a Francesco Damiano a storno della somma che gli deve dalla passata fiera di Foggia. E che non fu pagata.
Per combattere il malumore occorrono buone idee. Occorrono grandi progetti e sogni da accarezzare mentre aumentano le delusioni. Per questo ho condito i polverosi e grigi studi di legge con il gusto per la poesia. Così, tanto per spezzare la fatica della monotonia e per immaginare bellezze capaci di schiarirmi i pensieri. Non sono un poeta molto bravo, però. Avrei potuto impegnarmi di più. Ora posso dirlo, avrei potuto fare meglio.
Quando, in quel luglio infuocato, il destino di Napoli sembrava potersi capovolgere, quando le sorti di ciascuno parvero sul punto di fiorire di nuova, violenta, fortuna, mi dissi la stessa cosa. Posso fare meglio! Posso fare meglio di questa vita da poeta-avvocato sempre in debito, meglio di questo cuore solo un po’ sognatore. Se un pescivendolo ci ha regalato una rivoluzione, anche io, posso regalare qualcosa, qualcosa di importante, alla città. Così mi dissi. Così mi apprestai a fare.
Cosa c’è, a metà, tra la legge e la poesia? La politica, io dico. Osservando ciò che Masaniello era diventato a Piazza Mercato, vedendo tutta quella gente in armi, esultante, innanzi al Carmine Maggiore, mi sentii irrimediabilmente parte di qualcosa. Mi sentii rapire dall’idea che tutto quello che avevo studiato – le guerre, le leggi della città, il nuovo stato nato dalla ribellione dell’Olanda, la possibilità di liberarsi da un dominatore rapace e brutale la Spagna – potesse diventare qualcosa di meglio. Potesse diventare reale. Dal sogno, al vero. Dalla rivoluzione, alla repubblica.
Quando Masaniello fu ucciso dalle archibugiate e dal tradimento io proposi, per primo, di farci giungere una guida dall’unico paese abbastanza forte per aiutarci contro gli spagnoli, la Francia. Un principe di sangue nobile che avrebbe raccolto la fiducia dei cittadini combattenti, che sarebbe stato per noi quello che Guglielmo d’ Orange era per gli olandesi: il difensore della nostra repubblica. Lo avevo studiato.
Ma invece di una guida, dalla Francia ci arrivò un altro tiranno. Un giuda senza né esercito né denaro. Il Duca di Guisa, in cui io e gli altri miei compagni avevamo sperato, si rivelò un avventuriero e un sanguinario. Potevo fare meglio e ci provai. Lo giuro, io ci provai. Appena capì, appena mi fu chiaro che il Guisa non mirava ad un Senato, ma ad una corona, appena fu palese che desiderava non una repubblica, ma un principato, lo affrontai. Mi alzai in piedi, davanti a tutti, e gli gridai che il popolo napoletano non si sarebbe fatto comprare, non avrebbe scambiato un’oppressione antica con una nuova. Che avremmo preferito la morte e la fame alla finte dei nostri sogni. Perché lo sapete, la libertà è un cibo che una volta provato diviene indispensabile…
Fa freddo. Tra poco mi porteranno alla Vicaria. È una disgrazia che la congiura contro Masaniello sia riuscita con tanta cura e con letale efficacia, mentre la mia sia stata subito scoperta. Avrei voluto uccidere il tiranno, salvare la rivoluzione, difendere la repubblica. Far continuare il sogno… Ed invece non sono riuscito neppure a scappare.
Però, tra le tante cose che potevo fare meglio, non voglio che si elenchi anche il morire. Quello desidero farlo bene, anche se dev’essere di notte, anche se dev’essere come traditore. Per questo l’ultima mia composizione, recitata in confidenza al boia, sarà un solo verso di un poema che spero si ricordi lungamente: viva Napoli e che mora il mal governo!